“The Advocate” lo ha intervistato l’ultima volta per la storia di copertina del Settembre 2002, Randy Harrison aveva appena finito di girare la seconda delle cinque stagioni del dramma televisivo della Showtime “Queer as Folk”, nel quale aveva il ruolo di Justin Taylor, teenager gay, ma aveva già in mente un piano di fuga. “Ho una specie di visione di me stesso nella quale scompaio per un po’, per poi ricomparire dopo 10 anni per la strada,” diceva Harrison a soli 24 anni, quando era il più giovane attore gay dichiarato in televisione. Sono passati più di 4 anni da quando la controversa serie televisiva è finita, ma l’attore veterano del palcoscenico, che ha avuto il suo debutto a Broadway nel ruolo di Boq in “Wicked”, è rimasto molto visibile sulla scena teatrale. Ora a 32 anni, Harrison sta portando in vita un ritratto dell’artista pop-filmografo Andy Warhol nella premiere mondiale di “POP!” diretta da Mark Brokaw, un musical che si svolge al Factory con parole e musica di Maggie-Kate Coleman e Anna K. Jacobs, e che andrà in scena fino al 19 di Dicembre al Yale Repertory Theatre di New Haven, Conn. Advocate.com ha cercato di prendere il meglio dai 15 minuti dell’intervista con Harrison, il quale continua ad elevare a forma d’arte il fatto di avere una posizione “post-gay” sulla fama, l’attivismo e la sessualità.
Quanto sapevi di Warhol e del Factory prima di iniziare a
lavorare in “POP!” al Yale Rep.?
Più di molti altri. Verso la fine del college mi sono molto interessato
al Velvet Underground e la cosa mi ha avvicinato a Warhol. Erano i tempi
in cui il video negozio di Kim era ancora aperto nell’ East Village,
per cui ho affittato molti dei film di Warhol lì, tipo “Lonesome
Cowboys.” Lui mi affascina. Ammiro il fatto che abbia rovesciato
l’arte e creato un lavoro che sfidava le convenzioni, e parlo specialmente
dei suoi film. Penso anche che lui sia davvero divertentissimo.
Hai studiato del materiale d’archivio e delle vecchie
interviste a Warhol per preparare il ruolo?
Un po’ sì, ma alla fine per raccontare la storia ho dovuto
lasciar cadere un bel po’ di quelle cose. Un’imitazione perfetta
di Warhol non funziona per creare un musical ed una sua rappresentazione
teatrale convincente. Molti dei suoi veri modi di fare non erano utili,
e non si può ricreare la sua voce e continuare a sembrare Warhol.
Lui parlava con un tono abbastanza monotono, quasi senza inflessione e
poche articolazioni, e con un accento piatto del Midwest, e questo è
completamente anti-teatrale. Mentre sono Warhol devo cantare e devo risultare
credibile.
Ma visto che Warhol è un personaggio realmente esistito,
non senti di avere una responsabilità nel rappresentarlo in modo
fedele alla realta?
Fortunatamente, questo show ha un contesto completamente diverso nel quale
introdurre Warhol, per cui non sento l’obbligo che sentirei se stessi
girando un film su di lui. Il mio è un Warhol da fiction.
“POP!” non esplora direttamente la sessualità
di Warhol, ma molti critici nel corso degli anni hanno esaminato il modo
in cui la sua omosessualità ha conformato il suo senso estetico,
e al contempo lo ha ostacolato nella sua carriera. Alcuni dei suoi contemporanei
erano arrabbiati o intimiditi dalla franchezza della sua sessualità
nei suoi lavori, ma lui si è sempre rifiutato di piegarsi per qualcuno.
Ti ritrovi in questo aspetto della personalità di Warhol?
Oh, assolutamente. C’è questo affascinante libro intitolato
“Pop Out” che è in pratica una disamina in chiave gay
della vita e delle opere di Warhol. E’ interessante ricordare come
sia Jasper Johns che Bob Rauschenberg fossero gay ma si comportavano da
duri e per questo non volevano avere a che fare con Warhol. Per me la
cosa più fantastica di Warhol è il fatto che lui intenzionalmente
giocasse sull’aspetto “alla moda” del popismo –
“alla moda” è il termine che usa lui. E’ una
cosa che ammiro molto.
Quando “The Advocate” ti ha intervistato nel
2002, ci hai detto di essere spaventato dalla possibilità che qualcuno
ti vedesse come “il ragazzo poster per qualcosa” perché
tu non hai mai avuto “obbiettivi attivisti.” Considerando
quanto il dibattito sull’eguaglianza di diritti per il matrimonio
si sia riscaldato da allora, senti di essere diventato un po’ più
coinvolto politicamente?
Sono sempre stato coinvolto politicamente, ma sono coinvolto a livello
personale e non come celebrità. Andrò a marciare a Washington
con i miei amici, ma non ci andrò come Randy Harrison, come una
specie di portavoce, perché non sono a mio agio in quel ruolo.
Ma sono attivo come ogni essere umano dovrebbe essere.
Un’altra cosa che hai detto a “The Advocate”
era che “a parte il fatto che vado a letto con uomini, non mi sento
davvero parte della comunità omosessuale, per una ragione o per
l’altra. Ho un gruppo di sei amici, e solo due di loro sono gay.”
Ora che hai raggiunto la trentina, ti senti più connesso con la
comunità gay? O per lo meno, hai più amici gay?
(Ride) Non ho nessun’altro amico gay! Forse mi sento un po’
più connesso, ma non molto. Non molto è davvero cambiato
da allora. Non sono coinvolto nella vita notturna gay nemmeno ora, ma
sono una persona gay che vuole avere parità di diritti, per cui
in quello sono coinvolto. Tutti i miei amici, etero o gay, sono coinvolti
con questo.
Nel 2003, per una storia di copertina di “Vanity Fair”
chiamata “Gay-Per-View TV” hai partecipato ad un servizio
fotografico molto glamour a cui erano presenti i membri più importanti
del cast di “Queer as Folk,” “Will & Grace,”
“Queer Eye For The Straight Guy,” “The L Word,”
e “Boy Meets Boy.” Come è stato avere un così
grande ruolo in quel periodo annacquato della nostra televisione visto
che non ti sentivi davvero parte della comunità?
Per me è stata una cosa passeggera. Ora, guardandomi indietro,
comprendo come quella visibilità potesse essere vista come una
sorta di progresso, ma tutto ciò che ricordo del servizio fotografico
è che non vedevo l’ora che finisse.
Dici sul serio? In una foto sei ad un centimetro da Megan
Mullally e sei attaccato a Thom Filicia mentre Jennifer Beals mostra la
faccia in un angolo. Quel servizio sembrava molto divertente.
Davvero? Oh mio Dio, no. Mi ricordo che è stato molto stressante
e faticoso. Ma io ho sempre difficoltà con i servizi fotografici,
punto.
Vorresti aver raggiunto la posizione che hai ora nel mondo
teatrale senza prima esser passato per “Queer as Folk”?
Non proprio, perché l’aver lavorato in televisione è
l’unico motivo per cui ora ho una stabilità finanziaria.
Sono certo che “Queer as Folk” mi ha aperto molte porte, anche
se me ne ha chiuse altre, per cui questa è una cosa di cui sono
grato.
Facendo eco alle controverse dichiarazioni che i registi
Todd Holland and Don Roos hanno rilasciato all’inizio di quest’anno,
Rupert Everett ha recentemente consigliato ai giovani attori gay di non
dichiararsi e ha detto, “Il fatto è che non potresti essere,
e ancora non puoi essere, un omosessuale di 25 anni che cerca di sfondare
nel mondo del cinema.” Come rappresentante degli ex-venticinquenni
omosessuali che non ha fatto molti film da quando è finito “Queer
as Folk,” credi che abbia ragione?
In realtà non ho mai realmente provato ad entrare nell’industria
cinematografica, per cui non so se abbia ragione o meno. “Queer
as Folk” è stato un passaggio, e poi me ne sono tornato al
teatro. Sono molto più soddisfatto del lavoro che ho fatto dal
momento in cui è finito “Queer as Folk.” E’ stato
quasi solo lavoro teatrale, ma questa era la mia intenzione, per cui faccio
ciò che ho sempre voluto fare.
Ma pensi che esserti dicharato abbia danneggiato la tua carriera?
Non so quali decisioni vengono prese nelle sale casting o cosa la gente
pensa di me, per cui non so che differenza potrebbe aver avuto o che tipo
di carriera avrei potuto avere se non mi fossi dichiarato gay. So soltanto
che non dichiararmi era impossibile per me, per cui non lo rimpiango.
L’unica cosa frustrante per me è il fatto che, essendomi
dicharato, ho dovuto parlare della mia vita privata, ed è una cosa
che in generale non mi interessa fare. Non penso che gli attori debbano
essere obbligati a parlarne. Voglio essere apertamente gay perché
è importante per me socialmente e politicamente, ma allo stesso
tempo non ritengo siano affari di nessuno chi mi porto a letto.
Allora dev’esserti sembrato strano quando il New York
Magazine ti ha messo sulla copertina del suo numero del 2002, indicandoti
come “L’icona gay post-gay.” Cosa ha significato per
te?
Al tempo – e questa è una sensazione che ho provato molto
spesso mentre facevo “Queer as Folk” – ero frustrato
dal fatto che la communità gay venisse ghettizzata, e mi riferisco
alla mentalità del “noi contro di loro” che contrappone
gay e etero. Per cui ho voluto leggere il fatto del “post-gay”
come qualcosa che volesse andare oltre le etichette della sessualità.
Un recente articolo del Newsweek, ha riportato che i recenti
personaggi gay effeminati che si vedono in show come “Glee,”
“Ugly Betty,” “Entourage,” “Modern Family”
e “True Blood,” più che aiutare la comunità
gay, la feriscono. Cosa ne pensi della rappresentazione dei gay in TV
recentemente?
Non guardo questi show per cui non so chi siano i personaggi cui ci si
riferisce, ma solo il fatto che siano presenti in TV è importante.
Forse gli adulti non possono usarli come giocattoli politici in qualche
modo, ma io so – e questo era molto importante per me mentre facevo
“Queer as Folk” – che ogni tipo di visibilità
di personaggi gay dà conforto a chi ha 14 anni e vive in un posto
sperduto. Ora è facile vedere due ragazzi che si baciano in TV,
per cui per lo meno non si deve più andare in uno strano negozio
di video per affittare film Merchant-Ivory.
Guardandoti indietro, i personaggi di “Queer as Folk”,
ipersessualizzati e che abusavano di droga, possono aver fatto più
male che bene nel lungo periodo?
Proprio la scorsa notte, qualcuno mi ha avvicnato e mi ha detto, “Non
sarei riuscito a sopravvivere alla mia adolescenza se non ci fosse stato
quello show in TV.” Per cui queste buone cose sorpassano del tutto
qualsiasi effetto sgradevole lo show possa aver avuto.
Ti è mai capitato di vedere una delle repliche con
scene tagliate che vanno in onda su Logo?
No. E non le guarderei. Ho tanti amici che ho conosciuto da quando lo
show è finito che non lo hanno mai visto, e occasionalmente mi
dicono, “Oh mio Dio! Guardavo la TV e ho visto quello show in cui
c’eri tu.” E tutti mi dicono, “Quanto eri biondo!”
Quante sono le possibilità di avere una reunion di
“Queer as Folk”? Io personalmente non direi di no ad uno special
di Natale dal titolo, “A Very Queer as Folk Christmas.”
Sono piuttosto sicuro che non ci sarà nessuna reunion, ma io vedo
il resto del cast una volta l’anno. Io vivo a New York e loro sono
a LA, ma quando capito lì cerco di vedere alcuni di loro per pranzo.
Andiamo tutti d’accordo.
Tornando a parlare del tuo lavoro in teatro, l’ultima
volta che sei apparso su un palco di New York è stato la scorsa
primavera al Public Theatre in “The Singing Forest” di Craig
Lucas, una complicata storia epica in cui tu avevi il ruolo di un barista
gay di Starbucks e di un poliziotto nazista etero. In una scena il tuo
personaggio nazista stupra il personaggio di Olympia Dukakis prendendola
da dietro in una scena che sembra durare un’eternità. E’
stata quella la cosa più surreale che hai fatto su un palcoscenico?
Sì, lo è stata. Ero molto eccitato di far parte di quel
progetto perché sono un grande fan di Craig, e in pù i due
ruoli che avevo erano due straordinari opposti. Avevo fatto molti lavori
classici come Shakespeare, Marlowe e Beckett, ma non avevo mai lavorato
in una commedia nuova sin dai tempi di “A Letter From Ethel Kennedy”
nel 2002, per cui volevo davvero lavorare a qualcosa di nuovo. E’
stata una grande esperienza. Olympia è un’attrice favolosa,
una grande insegnante di recitazione, ed una persona fantastica con cui
condividere un posto in cui puoi vederla recitare.
Le review di “The Singing Forest” però
non sono state esattamente entusiaste. Pensi che i critici non l’abbiano
capito?
Oh, io non leggo le critiche per niente. Non ci riesco. Ma direi che il
60% degli attori non legge le critiche. Ti confondono e non ne vale la
pena. Ho imparato ai tempi di “Queer as Folk” a non leggere
nessuna delle cose che la gente scrive su di me.
Hai anche avuto il ruolo di Alan Strang nella celebrata produzione
del 2005 di “Equus” al Berkshire Theatre Festival. Come sei
riuscito, al contrario di Daniel Radcliffe, a far sì che nessuna
foto del tuo pene venisse postata ovunque su internet?
Bé, c’erano uscieri che correvano su e giù per le
file della platea e portavano via macchine fotografiche al pubblico. Però,
ho sentito che c’è il modo di avere una di quelle foto –
e questo non mi sorprende, conoscendo alcune delle mie fans. Non so se
questa foto sia online, per cui dovresti forse farti un giro nei fan forum
o nelle chat e parlare con una donna di mezz’età, un po’
sovrappeso, che probabilmente la tiene in un file sul desktop del suo
computer.
Parlando di fans, lo scrittore Christopher Rice una volta
mi ha detto che qualche volta lo scambiano per te in strada. Ti hanno
mai scambiato per Christopher Rice?
No. Ma è strano perché lui è molto alto, no? Spesso,
comunque, non vengo scambiato nemmeno per me stesso, il che è confortante.